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Fear of missing out

Sono legato a quell’istinto di assuefazione digitale proprio di chi “adolesceva” (cit. Caterina Guzzanti) negli anni Novanta. Non è una tendenza bensì proprio un qualcosa di innato che tende a sormontare le abitudini sane e le trasforma in pessimi comportamenti compulsivi soltanto alla vista di qualcosa di elettronico. Se il senso di stupore è in qualche modo svanito, rimane l’intenzione di sovra utilizzare ciò che è superfluo ed effimero. D’altronde siamo una generazione cresciuta di pari passo con l’ascesa del Wrestling, per cui è lapalissiano il fatto che si tenda a confondere ciò che è vero con ciò che è una seggiola di pan di zucchero.
A causa di questa metamorfosi genetica tendo dunque a scrollare ossessivamente le storie e i reel sui social, tanto da imbattermi in nuove tendenze di cui, essendo quasi un -anta, sono del tutto alieno e provo, in ventisei secondi, ad adattarmi ed immergermi nell’attuale, giovane, universo comunicativo.
Ne deriva un niente di fatto ma raramente mi restano in mente alcuni spunti. Uno di questi mi è stato gentilmente donato da un reel in cui Victoria dei Maneskin (che gli duri) viene intervistata a Radio Deejay e chiacchiera della sua F.O.M.O. .
Un attimo: che diamine è la F.O.M.O. ? Qui tutto l’interesse accademico per le particolarità della psiche si concentra e drizza le antenne.
Non è una nuova parafilia; non è un disturbo psichiatrico; non è una patologia; non è un bias (vedi articolo precedente); insomma cos’è?

E’ quasi una delle cose scritte sopra, ma nessuna di esse. E’ un pattern comportamentale che evidenzia sì qualche difetto, che può certamente essere la manifestazione di un certo disagio, che potrebbe perfino consistere in una prematura comparsa sintomatica di un qualche cosa di serio.

Significa Fear of Missing Out: paura di perdersi qualcosa. Di non esserci.

In un attimo si è accesa la luce su un cono d’ombra che offuscava una devianza di cui ero alla ricerca da anni: il presenzialismo .

Finalmente gli americani hanno coniato un termine figo e social-friendly per questa bruttura collettiva.
Milioni di persone soffrono di presenzialismo. Nella società attuale – iperveloce e ipercompetitiva – perdersi qualcosa o qualcuno è una disfatta colossale.

E non solo per personaggi in vista come la cara Victoria ma per ogni strato della civiltà. Non essere al bar, non essere alla laurea dell’amico, non essere a una festa, non essere nel gruppo whatsapp: ogni assenza può generare una voragine sotto ai nostri piedi e incrinare la nostra posizione.
Siamo obbligati a sapere sempre tutto, a conoscere ogni meme e ogni tormentone, a reagire con qualcosa di stupefacente a qualcos’altro di stupefacente; il tutto a un ritmo inverosimile.
Nessun essere umano può farsi algoritmo dalla sera alla mattina. Nessuno.
Eppure il presenzialismo è diffuso più o meno da sempre, seppur con diversa andatura.
Farsi trovare impreparati il lunedì sui risultati delle partite è sempre stato una sconvenienza sociale. Ma rimaniamo in tema di giovani: essersi persi una festa è storicamente un incubo.
Saremo costretti ad affrontare gruppetti di ragazze e ragazzi che, in classe o in cortile, commentano fatti sconvolgenti accaduti la sera prima – accuratamente ingranditi per toglierci il fiato – e noi lì fermi a languire, lacerati dall’incertezza, morsi da dentro dal mostro della F.O.M.O. .

Non esserci significa non esistere.

Se l’assioma è questo, siamo in davvero messi male.

Dovremmo invece fermarci un attimo e chiederci: mi interessa? E’ davvero cruciale l’evento a cui hanno assistito tutti gli altri mentre quello che facevo io in quel momento era meno rilevante? E perché? Perché non può essere la mia scelta, quella di primaria importanza? O il mio impedimento? Non esserci significa essere da un’altra parte, a fare qualcos’altro. Migliore o peggiore che sia, è la nostra esigenza e va soddisfatta con piena coscienza di sé.
Se non viviamo il qui e ora con presenza di spirito e di mente, allora sì ci stiamo giocando tutto, e effettivamente non ci siamo. Abbiamo il dovere di concentrarci su quello che ci riguarda, per una sorta di rispetto del nostro io. Non mettiamo sotto lo zerbino tutte le molecole della nostra dignità sacrificandole sull’altare del presenzialismo.

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